La scuola italiana vive una stagione inedita nella ricerca di supplenti. Con l’introduzione degli interpelli scuola, le istituzioni pubblicano veri e propri “bandi lampo” per coprire le cattedre vacanti. Ma a rispondere, sempre più spesso, non sono solo insegnanti qualificati: tra i candidati compaiono baristi, manager d’azienda e persino casalinghe autodefinite “Family CEO”.
Nei gruppi dedicati e negli albi online delle scuole, le candidature più curiose non mancano.
C’è chi ha lasciato il bar per provare a insegnare storia, chi ha gestito un team aziendale e ora si propone per matematica, e chi — come molte madri di famiglia — rivendica esperienze “educative” maturate tra compiti e merende pomeridiane.
Una dirigente scolastica di Milano racconta:
“Abbiamo ricevuto oltre 400 candidature. Tra queste, un buon 20% non aveva alcuna attinenza con l’insegnamento. Alcuni profili erano… creativi, diciamo così.”
Gli interpelli nascono per velocizzare le chiamate dei supplenti, ma stanno diventando anche uno specchio del mercato del lavoro italiano: sempre più fluido, precario e in cerca di stabilità.
Molti candidati fuori settore vedono nella scuola un approdo sicuro o una seconda chance professionale. Il risultato? Una marea di CV che le segreterie devono vagliare in tempi record — spesso scoprendo che i titoli richiesti non ci sono.
Il fenomeno fa sorridere, ma pone domande serie:
Fino a che punto è accettabile allentare i requisiti pur di coprire una cattedra?
Che impatto ha tutto questo sulla qualità della didattica?
Dietro le candidature “improbabili” si nasconde un’Italia che cerca lavoro ovunque — anche tra i banchi di scuola — ma anche un sistema che fatica a valorizzare chi ha davvero competenze didattiche.
La stagione degli interpelli ha mostrato che la scuola, oltre a essere luogo di formazione, è anche un termometro sociale. E se oggi tra i candidati troviamo baristi, manager e “Family CEO”, forse è perché la crisi del lavoro e la ricerca di senso passano sempre più spesso da un’aula scolastica.